Epigenetica e scrittura autobiografica

penna su foglio e inchiostro
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La scrittura autobiografica può essere un’esperienza profondamente trasformativa, capace di generare consapevolezza, sciogliere nodi interiori e rimettere in circolo emozioni e memorie che spesso restano silenziose, ma attive nel corpo.

In diversi percorsi che proponiamo in Frame Studio Psicologia e che svolgiamo con le persone che accompagniamo – neurotipiche e neurodivergenti – la scrittura non è solo un esercizio creativo o un atto narrativo. È uno strumento accessibile e adattabile, che permette a ciascuno di trovare la propria voce e il proprio ritmo, in base alle proprie modalità di sentire, esprimersi, vivere e stare nel mondo.

Quando la scrittura incontra il lavoro epigenetico – che si occupa delle tracce emotive e biologiche ereditate e sedimentate nella nostra storia personale e familiare – si può aprire uno spazio prezioso: un luogo in cui è possibile riconoscersi, dare un nome a ciò che agisce dentro di noi e, passo dopo passo, riscrivere il modo in cui ci raccontiamo e ci viviamo.

In questo articolo condivido il senso di questo intreccio tra epigenetica, parole, corpo, scrittura e memoria. L’obiettivo è poter offrire suggestioni a chiunque senta il bisogno di fare ordine, di lasciare andare pesi invisibili, o semplicemente di trovare una nuova chiave di lettura per la propria storia attraverso la scrittura autobiografica. Non per rimanere nel passato, ma per tornare a viverlo in modo più libero, consapevole e autentico.

La scrittura autobiografica può essere una delle vie possibili per imparare ad abitarsi davvero.

Scrittura autobiografica come via per abitarsi davvero

Da tempo rifletto su come la scrittura autobiografica e il lavoro epigenetico che pratico ogni giorno siano profondamente connessi. Apparentemente sembrano ambiti lontani – uno legato alla narrazione di sé, l’altro al lavoro sul corpo, sulle memorie cellulari, sull’eredità emotiva e biologica che ci portiamo dentro.

Eppure, per quella che è la mia esperienza, questi due livelli dialogano costantemente. Scrivere di sé non è solo un esercizio mentale o narrativo: è un processo trasformativo che coinvolge il corpo, apre varchi nella memoria e può smuovere stratificazioni profonde, proprio come accade nel lavoro epigenetico.

Questo articolo ha l’obiettivo di essere suggestione per chi sta cercando modi autentici per conoscersi, per dare senso alla propria storia e trasformare ciò che a volte pesa in qualcosa che nutre.

La scrittura autobiografica come via per dare voce all’esperienza vissuta, e il lavoro epigenetico come accesso al corpo e alla memoria profonda, quella che non sempre passa dalla parola ma si fa sentire nei sintomi, nei blocchi, nei silenzi.

Parlare di questo intreccio significa offrire a chi legge uno sguardo nuovo: non solo sul passato, ma sul modo in cui possiamo abitarlo oggi per scegliere consapevolmente come vivere nel presente. Un invito a riconoscersi e a ri-scriversi, dentro e fuori dalla pagina.

Riscrivere la memoria: il potere trasformativo della scrittura autobiografica

La scrittura autobiografica non è un esercizio “letterario”, né un vezzo riservato a chi scrive per mestiere. È una pratica accessibile, profonda e trasformativa.

Quando scriviamo della nostra infanzia, di un evento significativo, di un dolore mai raccontato, stiamo facendo molto più che riportare dei fatti: stiamo riformulando la memoria, dando parole a emozioni rimaste sospese, creando connessioni nuove tra corpo, mente e storia.

Le neuroscienze ci parlano di neuroplasticità: la capacità del cervello di modificarsi in risposta all’esperienza. Scrivere di sé — in particolare di vissuti emotivamente carichi — è un modo concreto per favorire questo processo. Ogni parola, ogni frase che costruisce senso, è una sinapsi che si riattiva, connessioni neurali e biochimiche nuove che possono essere scritte.

La mia esperienza diretta

Questo articolo può interessare – e forse anche aiutare – chi sta cercando modi autentici per conoscersi, per dare senso alla propria storia e trasformare ciò che a volte pesa in qualcosa che nutre.

Quando ho scritto e pubblicato il mio primo libro autobiografico, diversi anni fa, ho attraversato un processo lungo e profondo. L’ho scritto nell’arco di due anni, scegliendo con cura il mio pseudonimo, ogni parola, ogni pausa, la carta su cui sarebbe stato stampato – una carta speciale, pensata per essere sentita al tatto – e le grafiche realizzate a mano da un artista calligrafo, poi diventato caro amico, che aprono ogni capitolo come varchi. È un progetto artistico, ma soprattutto umano: nato da un’urgenza interiore, trasformata in narrazione.

Scrivere la propria storia è un processo che richiede coraggio, tempo, disciplina, motivazione profonda. Ognuno ha il proprio modo e il proprio ritmo per farlo, che sia lineare o no, più visivo o più narrativo, più corporeo o più concettuale.

Condivido questo non per raccontare un risultato personale, ma per ricordare che ogni percorso è unico e ha le sue soglie. Scrivere di sé può essere trasformativo anche quando resta un gesto privato, custodito, non ancora visibile o reso pubblico.

Non esiste un modo giusto in assoluto per raccontarsi. Ma esiste un diritto comune: quello di imparare ad abitare la propria verità.

La scrittura come spazio sicuro

Chi ha vissuto esperienze traumatiche o relazioni complesse sa quanto possa essere difficile dare forma al proprio passato.

La scrittura autobiografica offre uno spazio protetto dove esplorare questi vissuti con gradualità. A differenza della parola orale, che è esposta e transitoria, la scrittura rimane. E proprio per questo può essere riletta, rielaborata, restituita con un altro sguardo.

Scrivere consente di:

  • Dare un senso narrativo alla propria storia, anche nei punti di frattura
  • Riconoscere schemi emotivi e relazionali ricorrenti
  • Ritrovare una voce autentica, spesso soffocata da aspettative esterne
  • Creare una distanza utile per osservare con maggiore lucidità

Scrittura autobiografica e consapevolezza emotiva

Non è necessario ricordare tutto con precisione. A volte basta un’immagine, un dettaglio, una sensazione che si ripete. È da lì che nasce la narrazione. E quella narrazione, se accolta senza giudizio, può diventare una mappa interiore preziosa.

Ho riscoperto me stessa in pagine che avevo scritto anni prima e dimenticato. Ho riconosciuto emozioni che allora non sapevo nemmeno nominare. Ho guardato da adulta luoghi della mia infanzia con occhi nuovi, e in quel gesto silenzioso ho sentito qualcosa allentarsi.

La scrittura non ha cancellato il dolore, ma gli ha dato un posto. Una forma. Una dignità.

Il legame con l’epigenetica

L’epigenetica ci dice che le esperienze che viviamo possono modificare l’espressione dei nostri geni.

Ogni storia personale è anche una storia biologica: ciò che viviamo lascia tracce nel corpo. E ogni gesto narrativo — come la scrittura autoriflessiva — può diventare un atto trasformativo potente, in grado di toccare e risignificare quelle memorie inscritte nel nostro organismo.

Scrivere di sé, in questo senso, non è solo raccontarsi. È poter riscrivere anche le impronte invisibili che ci attraversano o ci hanno attraversato:

  • Memorie familiari non dette
  • Vissuti traumatici non ancora elaborati e metabolizzati
  • Le parole che non ci sono state date per comprendere ciò che è accaduto

Diventa un’opportunità per risignificare l’esperienza, per trasformarla da destino a possibilità.

Uno spazio dove ricamare storie e radici

Questo lavoro di scrittura, memoria e corpo non è solo personale. Da tempo, nel nostro studio Frame e nel nostro laboratorio esperienziale Frame Hub_evolution, sentivamo l’urgenza di creare uno spazio in cui queste esperienze potessero essere attraversate insieme, con la giusta cura, con le giuste domande.

Così è nata Terra: Ricamare Storie e Radici – Level 1, la nostra Masterclass esperienziale on-demand pensata per chi sente il desiderio di esplorare le proprie radici, onorando le storie da cui veniamo e riscrivere, con delicatezza, ciò che siamo oggi.

Si tratta di uno spazio in cui trovare parole, esercizi, rituali, e soprattutto uno spazio sicuro e non convenzionale, in cui la scrittura può diventare uno degli strumenti possibili, così come il ricamo, per esprimere corpo, memoria, voce.

Non serve “saper scrivere”, ma volersi mettere in ascolto e stare — con gentilezza e apertura di cuore e mente — in ciò che emerge.

Una pratica possibile

Se desideri avvicinarti a questa pratica, ti invito a farlo con delicatezza.

Prenditi del tempo, crea uno spazio protetto, e prova a seguire questa traccia:

  • Dedicati 30/60 minuti
  • Comunica alle persone con cui vivi che avrai bisogno di non esserti disturbato/a o interrotto/a
  • Prepara lo spazio, rendendolo intimo e accoglienti (puoi scegliere una musica bassa, un olio essenziale, una candela o puoi tenere accanto a te una tisana o un caffè caldo)
  • Richiama alla mente un ricordo d’infanzia che si ripresenta spesso, anche se non sai bene perché
  • Lascia che il ricordo riaffiori dal corpo, senza forzare
  • Accogli le sensazioni che emergono: immagini, parole, reazioni corporee. Lascia che emergano così come sono.
  • Prova a iniziare a far scorrere la penna sul foglio, descrivi ciò che emerge, ciò che senti
  • Prova a rileggere ciò che hai scritto
  • Ora, resta in ascolto: come stai ora, nel corpo, nel respiro, nell’emozione?

Non è importante che il testo “funzioni”, non è necessario che venga poi condiviso.

È la presenza che conta. Lo sguardo gentile. Il movimento sottile che avviene dentro di te quando dai un nome a ciò che non lo aveva. Quando, scrivendo, ti permetti di riconoscerti.

Studi recenti: scittura autobiografica e benessere corpo-mente

Negli ultimi anni, le ricerche scientifiche hanno iniziato a confermare ciò che molte persone sperimentano intuitivamente da tempo: scrivere di sé, con onestà e delicatezza, può trasformare profondamente, anche a livello biochimico, la qualità della propria vita.

Un recente studio pubblicato su Frontiers in Psychology (Sugimori, 2024) ha mostrato che scrivere lettere compassionevoli al proprio sé passato migliora significativamente l’umore e il rapporto con la propria storia, soprattutto in chi ha una visione del tempo segnata da ferite.

In parallelo, altri studi hanno evidenziato come eventi traumatici non solo lascino tracce emotive, ma anche biologiche: ricerche epigenetiche condotte su famiglie colpite da guerra e migrazione (Mulligan et al., 2025; Zhou, 2023) dimostrano che il trauma può essere trasmesso a livello genetico, influenzando le generazioni successive.

Ciò che rende questi risultati davvero rilevanti è che non si tratta di destini immutabili: attraverso percorsi narrativi, pratiche consapevoli e scrittura autobiografica profonda, è possibile iniziare a riscrivere anche ciò che il corpo ha custodito in silenzio.

In questo spazio di incontro tra parola, memoria ed emozione, si apre una possibilità concreta di cura integrata, in cui il benessere non riguarda solo la mente, ma tutto ciò che siamo.

Oltre la scrittura autobiografica: un ritorno a sè

Scrivere di sé non è un atto di autoesposizione, ma una forma di rientro. Un gesto che, se accolto con autenticità, consente di tornare a sé attraversando la propria storia e la propria voce.

Nella trama delle parole che scegliamo, nei silenzi tra una frase e l’altra, si rivelano punti di accesso alla nostra verità più intima. Quella che spesso non si dice, ma che abita ogni gesto, ogni relazione, ogni somatizzazione.

La scrittura autobiografica è un modo per restituire dignità all’esperienza vissuta, anche a quella che è rimasta inascoltata.

Un modo per abitare il presente con radici più profonde e una voce più integra.

Non sempre si sa da dove iniziare. Ma a volte basta una parola. E da lì, lentamente, tutto può ricominciare a fluire in modo più integrato.

Parole che diventano casa

A volte non cerchiamo risposte, ma luoghi.

Luoghi in cui poter stare con ciò che siamo, senza doverci spiegare. Per me, negli anni, la scrittura è diventata proprio questo: uno spazio da abitare.

Quando ho iniziato a scrivere la mia storia autobiografica, non avevo in mente un libro, né un pubblico. Avevo il desiderio urgente di dare voce a qualcosa che mi abitava da sempre e che, fino a quel momento, non avevo avuto il coraggio di guardare.

Ricordo ancora le prime righe: incerte, che quasi opponevano resistenza, ma vere. Più vere di molte conversazioni che avevo avuto negli anni. Scrivendo, ho sentito — forse per la prima volta — che quella me, quella parte rimasta in silenzio, aveva un posto.

Scrivere non ha cancellato il dolore. Ma mi ha insegnato a starci dentro senza esserne definita. Mi ha mostrato che si può convivere con la ferita senza continuare a riaprirla, che si può essere interi anche se si è stati spezzati.

E così, parola dopo parola, ho iniziato a sentire che forse, sì, stavo tornando a casa.

Tutto ciò che propongo nel mio lavoro — sia nei percorsi individuali che in quelli di gruppo — lo vivo prima di tutto e sempre sulla mia pelle.

È da lì che nasce ogni intuizione, ogni strumento, ogni parola che offro: dall’esperienza incarnata, prima ancora che dalla teoria.

Meritiamo di abitarci, con tutto ciò che siamo.

Fonti